Curare l’Italia, tutta e bene

Lunedì, 23 marzo 2020

Il Coronavirus ci sta ripetendo che, per lui, tutte le persone sono eguali. Con lui “uno vale uno”.

Proteggere l’Italia dall’epidemia vuol dire prima di tutto tutelare la salute: quindi difendere tutti coloro che vivono nel nostro Paese, indipendentemente dalla loro età, condizione economica, nazionalità, mestiere, area territoriale.

Con una particolare attenzione in più verso chi opera in prima linea (sanitari, forze di polizia, volontari) e a chi è esposto alle sue più drammatiche conseguenze: chi è fragile dal punto di vista della salute, come gli anziani e chi ha particolari malattie.

Va inoltre protetto chiunque deve prestare la propria attività lavorativa, in qualsiasi azienda di qualsiasi settore. La progressiva fermata delle attività produttive e lavorative, che potrà coinvolgere in Veneto circa 800.000 lavoratrici e lavoratori, impone di dedicare ancora maggior attenzione a tutte le persone che saranno al lavoro nelle prossime settimane, perché lavorino in condizioni di massima sicurezza.

Tutti dobbiamo seguire le regole di comportamento (stiamo in casa) per il contenimento di questo nuovo Coronavirus e tutti dobbiamo contare su una protezione sociale, specie sotto il profilo sanitario. Una protezione che non è solo la mascherina, ma una condizione connessa ad altre sia di tipo relazionale che economico.

E’ questa la prima priorità che riguarda tutti e che lega strettamente diritti e doveri, singolo e collettività.

I primi provvedimenti del Governo, compreso il Cura Italia, hanno dato molte risposte ma, al momento, lasciano ancora da sole molte persone che vivono assieme a noi.

Così è per i lavoratori domestici, quasi 2 milioni di persone, quasi tutte donne. Nulla è previsto per loro: nè dispositivi di sicurezza (spesso badano ad anziani e malati), né tutele economiche e nemmeno la possibilità di curare i propri figli con un congedo indennizzato.

Mancano le risposte ai senza tetto, alle famiglie che vivono in condizioni abitative promiscue e ai poveri che non possono accedere al Reddito di cittadinanza.

Peggio ancora per gli irregolari. C’è chi li stima in mezzo milione.

Parliamo complessivamente di oltre due milioni e mezzo di persone a rischio di esclusione sociale e ora anche sanitaria. Servono per loro particolari misure di tutela e di inclusione, anche in questa fase difficile.

La seconda priorità è di pensare già alla ripartenza.

La drammatica esperienza, che si stiamo vivendo da giorni e non finirà domani, ci sta facendo fare esperienze da cui abbiamo molto da imparare, anche nel mondo del lavoro.

In due settimane abbiamo attivato più posti di lavoro agile che in cinque anni di discussione, si sono semplificate molte procedure burocratiche, la sicurezza sul lavoro è tema collettivo nelle aziende ed è tornato in evidenza il valore delle relazioni sindacali.

Ci siamo anche resi conto di cosa significa poter contare su un welfare efficiente, che il servizio sanitario è una filiera complessa dove tutti i soggetti vanno rispettati e riconosciuti (dal medico a chi lavora nelle pulizie), che le connessioni telematiche sono strategiche e, dove scarseggiano, sono un problema reale (pensiamo alla scuola a distanza), che le barriere per impedire la libera circolazione dei lavoratori si pagano care e che dobbiamo darci una politica di formazione delle competenze di lungo respiro.

Non servono quindi solo risorse finanziarie per tamponare l’emergenza, salvaguardare le aziende ed il lavoro fino alla fine dell’emergenza, ma anche idee e progetti per riorganizzare la ripresa.

Per l’Italia è indispensabile che a questa finalità venga riconvertita la politica economica e sociale dell’Unione Europea a cui non è sufficiente chiedere meno vincoli di bilancio e tutela finanziaria, ma anche strategie unificanti, piani di lungo periodo vincolanti per tutti i Paesi aderenti.

Da questa crisi possiamo quindi uscirne migliori, più forti e più coscienti che ognuno deve fare, responsabilmente, la propria parte.