La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, una sfida che vale molto di più dell’art. 18 e del salario minimo

Venerdì, 07 febbraio 2025

L’editoriale del segretario generale Massimiliano Paglini sul tema della partecipazione, in vista dell’Assemblea nazionale dei delegati e delle delegate dell’11 febbraio a Roma, per sollecitare una rapida approvazione della proposta di legge Cisl in Parlamento.

Sono giorni importanti di attesa quelli che ci separano dall’appuntamento della prossima settimana a Roma, che vedrà riuniti numerosissimi delegati e quadri Cisl da tutta Italia: una grande manifestazione nazionale per sollecitare la rapida approvazione in Parlamento della legge sulla partecipazione proposta dalla nostra organizzazione, che dalla scorsa settimana è in discussione alla Camera dei Deputati grazie alla “spinta” di 400mila firme.

Approvare questa riforma non è il semplice tentativo di applicare l’articolo 46 della Costituzione. Implica e vale molto di più. Rappresenta una vera rivoluzione culturale e sociale. Ed è una sfida “antipopulista” lanciata a chi in tema di lavoro preferisce l’immediatezza degli slogan ideologici e delle semplificazioni, rispetto al coraggio di una visione, di una proposta radicata in un’idea precisa di economia, di persona, di futuro.

Coinvolgere i lavoratori nei luoghi decisionali delle imprese, rendendoli partecipi  delle scelte strategiche, non è né pericoloso né inutile, ma piuttosto completa quel disegno dei padri costituenti che, con sapienza e lungimiranza, scelsero una terza via tra il fideismo cieco verso la mano invisibile del libero mercato (che vede il “diritto” alla partecipazione come fumo negli occhi), e il dirigismo di chi era ed è convinto che i lavoratori debbano sovvertire l’ordine costituito, prendendo possesso dei mezzi di produzione contro l’impresa stessa.

A chi, pure tra le imprese, evoca tutto ciò, suggeriamo di studiare le forme di partecipazione dal basso costruite proprio nel nostro Veneto, anche senza la forza di una legge che ne regolamentasse il funzionamento.
Sono buone prassi che ancor oggi ci parlano del dna del nostro territorio in tema di partecipazione. Tra gli altri, il caso di un’azienda storica del Bellunese in cui attraverso la contrattazione si stabilì, a metà anni ottanta, un incremento salariale crescente in base al coinvolgimento dei reparti e di ciascun lavoratore nei processi produttivi, con l’obiettivo di ridurre gli scarti di produzione: una scelta che conferiva maggiore qualità al prodotto finale, così da determinare non solo vantaggi economici per i dipendenti ma soprattutto la fidelizzazione degli stessi lavoratori all’azienda e una contrazione fortissima dell’assenteismo (pari solo al 3% contro una media nazionale del settore che toccava allora l’8%).
E ancora il caso di un’impresa veronese, che lo scorso anno ha istituito una commissione paritetica per individuare e proporre azioni condivise con l’obiettivo di prevenire infortuni e incidenti sul lavoro: la sua costituzione ha portato alla definizione di indicatori che aumentano il plafond dei premi di risultato da erogare a tutto il personale.

Un’esperienza, come oggi ancora, che trovava fertile terreno in quella cultura partecipativa e imprenditiva che per ragioni antropologiche e sociali costituì le fondamenta in Veneto di un connubio, non scritto e non detto, tra imprenditori illuminati e tessuto sociale fortemente vocato al lavoro e alla manualità. Connubio che fu fondamentale per generare il boom economico e il passaggio da una economia rurale-agricola alla grande industrializzazione e alla nascita del modello delle nostre PMI e della nostra formazione professionale.

Generare la partecipazione, dopo settantacinque anni, attraverso una legge dello Stato che demandi alla contrattazione la sua realizzazione, non solo rafforza quest’ultima ma soprattutto avvia un percorso rivoluzionario di trasformazione del sistema economico e sociale che potrà far somigliare un po’ di più questo Paese alle migliori democrazie europee:  lì dove la partecipazione ha portato come risultato economie dinamiche, con bassi livelli di conflittualità e un forte senso di responsabilità condivisa.
Così la codeterminazione tedesca ha dimostrato di migliorare la stabilità economica, di favorire la collaborazione tra lavoratori e management e rafforzare la competitività delle imprese, oltre che distribuire meglio la ricchezza prodotta. Analogamente il modello svedese, che si fonda su due principi chiave: i sindacati non sono solo soggetti di rivendicazione ma partner attivi nella gestione aziendale, e il dialogo tra lavoratori e imprenditori è basato su trasparenza e condivisione degli obiettivi.

Partecipare, dunque, non è altro che un atto di assunzione di responsabilità per rigenerare il Paese.
E a chi va evocando scenari distruttivi per la contrattazione collettiva vorremmo evidenziare che la resilienza, la lungimiranza e l’ostinazione del sindacato riformista – ossia di Cisl – sono state determinanti per realizzare la contrattazione decentrata diversamente da chi voleva il contratto unico, il superamento della scala mobile diversamente da chi inneggiava all’automatismo da spirale economica sudamericana, la previdenza e la sanità integrativa negoziale diversamente da chi prefigurava la distruzione della previdenza della sanità pubblica.

La storia ci insegna che le vittorie più belle per i lavoratori, e quelle anche per loro più durature, passano spesso per le amare sconfitte di chi a parole dice di volerli difendere ma nei fatti auspica che non si smuovano mai dallo stato di disagio e necessità.

Per questo la realizzazione dell’articolo 46 rappresenta un ennesimo passaggio epocale nella storia della nostra Repubblica, per contribuire ad attuare la Costituzione “più bella del mondo”, che fonda le sue radici nell’economia sociale di mercato e troppo spesso ha trovato ostracismo e resistenze proprio da parte di chi invoca la piena applicazione di tutto il dettato costituzionale.

Si tratta di avere il coraggio di fare un passo oltre, fondamentale per costruire davvero un sistema economico e sociale che si fondi sui principi della sussidiarietà propri della Dottrina sociale della Chiesa e del riformismo laico, a cui Cisl ispira da sempre i suoi valori e il suo agire quotidiano.

Certo, spiegare questo ambizioso obiettivo è molto più difficile e complesso di qualsiasi manifestazione di piazza a favore dell’art. 18 o del salario minimo. Ma pensiamo rappresenti davvero l’ultimo treno per questo Paese, per alzare il livello retributivo dei lavoratori italiani. E senz’altro è battaglia decisamente più coinvolgente ed entusiasmante dal punto di vista culturale e ideale, perché fa crescere tutele e diritti a partire dalla sicurezza sul lavoro, la formazione, la parità di genere, la distribuzione della ricchezza,…

Siamo convinti che anche l’Italia sia pronta per raggiungere l’obiettivo della partecipazione. E non è solo per la crescita delle imprese, ma per la costruzione di una società più giusta, in cui il lavoro non sia un semplice fattore produttivo, ma un pilastro della democrazia economica. E in cui l’impresa sia davvero un bene delle comunità in cui si insedia, si sviluppa, genera valore e valori. In altre parole quel bene comune da proteggere e far crescere insieme ai lavoratori e alle lavoratrici.