Il Veneto e le multinazionali

Lunedì, 15 febbraio 2010

Alcoa, Glaxo, Speedline. Tanto per parlare dell'attualità. Le multinazionali in Veneto sono presenti da tempo, si sono prese aziende italiane statali e private con produzioni di grande valore: alluminio, farmaci, componenti per l'auto. Sono dedite al profitto e sanno che per realizzarlo servono brevetti, tecnologie, mercati, professionalità. Ora si stanno ritirando in altri luoghi del mondo, dove si possono fare business migliori e "svuotano edifici" come ha amabilmente spiegato Andrew Witty, il gran capo della Glaxo, ai giornalisti inglesi che chiedevano informazioni sulla decisione della multinazionale di chiudere la ricerca sulle neuroscienze in tutta Europa.
E forse è proprio così: si svuotano edifici dove si trovano tecnologie, intelligenze, produzioni, persone che lavorano, come fosse un trasloco, non considerando che, per chi vi lavorava dentro e per le comunità circostanti, è invece un terremoto.
E questo non avviene solo nei Paesi poveri ma anche in quelli più sviluppati.
Nel caso della Speedline-Ronal si portano le produzioni dove il lavoro costa di più (in Germania), nel caso della Glaxo dove si incrociano le migliori condizioni di mercato, di costo del lavoro, di nuove produzioni: in Cina per la cura del dolore e le malattie neurodegenative.
Hanno mano libera perché non sono vincolate se non dai loro proprietari, a volte, fondi di investimento, banche finanziarie, per i quali la produzione materiale di prodotti o servizi è solo uno degli strumenti per far rendere il denaro investito.
Il Veneto ha molto da imparare da queste vicende che, in una fase di crisi produttiva ed occupazionale già pesante, sono come un pugno sullo stomaco ad una persona già debilitata.
Deve imparare, una volta per sempre, che non esiste l'economia autarchica, che non ci si può, oggettivamente, chiudersi in casa. Ma anche che per far fronte a queste potenze internazionali (senza nazione, per meglio dire) servono forze altrettanto grandi, forze che si possono costruire solo mettendo insieme economie locali e Stati. A cominciare dall'Italia il cui governo dell'economia va reso più forte e non diviso e frammentato ma anche, e soprattutto, dall'Unione Europea, che deve crescere non solo come estensione geografica ma come autorità di governo centrale. Il caso Alcoa insegna.
Deve anche imparare che sviluppo non viene più da solo, non è un fenomeno naturale e spontaneo, e che la voglia di fare impresa e la voglia di lavorare non bastano più, hanno dato tanto e, beninteso, sono sempre materie prime indispensabili, ma hanno bisogno di ingredienti aggiuntivi.
Ad esempio serve che il territorio sia attrattivo per gli investimenti anche offrendo servizi alle imprese, collegamenti con il mondo nel quale operano. Dunque infrastrutture, servizi avanzati, reti, intelligenze, incentivi alla ricerca.
Il Veneto ha fatto, su questi aspetti, alcuni passi in avanti ma manca ancora di un progetto unico, razionale per lo sviluppo economico prossimo futuro e non utile solamente ad accontentare questa o quella lobby, questo o quel campanile.
Davanti ai loro stabilimenti le multinazionali issano bandiere con il loro marchio, quasi a segnare la presenza di uno entità autonoma con propri confini e regole. A volte queste regole vengono messe per iscritto in Codici Etici che, come nel caso della Glaxo, spariscono di fronte ad un profitto inferiore di 3 (tre) punti sull'aumento del 14% previsto.
In Veneto si sono fatte troppe discussioni sulle bandiere e poche invece sulle regole di comportamento che questo territorio d'Europa dovrebbe tenere per gestire le relazioni economiche. Molto di più si è fatto nella pratica in questi mesi di crisi con la crescita di una concertazione tra Istituzioni e Parti Sociali che ha dato buoni frutti nel limitare i danni della crisi. La fuga delle multinazionali ci chiede però molto di più.

Franca Porto