Introduzione di Paul Ginsborg

Giovedì, 30 dicembre 2010

Mi sento onorato d'introdurre questo lavoro sull'apporto dato dai veneti alla causa nazionale italiana. È indubbio che il momento più alto di questo contributo è stato il 1848 e la sua rivoluzione che continuo a definire borghese. Oggi c'è chi attribuisce alle rivoluzioni del 1848 un ruolo preparatorio rispetto agli eventi futuri, anche se con periodizzazioni diverse a seconda del campo storico in questione. Va notato che la struttura di questo dibattito recente mostra notevoli analogie con quello parallelo del 1968, che vede opinioni divise tra chi ne sottolinea la categorica sconfitta ed altri al cui giudizio gli avvenimenti di allora hanno lasciato notevole e positivo sedimento. Quanto al 1848, i pilastri della precedente interpretazione negativa continuano a sembrarmi solidissimi. La repressione fisica delle rivoluzioni nel 1849 fu gravida di conseguenze, sia sotto il profilo umano che politico. Il lungo passaggio culturale dal Romanticismo al Decadentismo, la scomparsa in paesi come l'Italia di quello che si può definire, sulla scia di Cattaneo, un ampio progetto civico fondato sulla cooperazione tra classi sociali, la durevole sconfitta delle aspirazioni democratiche pressoché ovunque.

È forse soprattutto nella natura del nazionalismo che si registrano i maggiori cambiamenti. Il nazionalismo, sempre bifronte, tricolore e gloriosamente patriottico da un lato, profondamente violento, misogino ed escludente dall'altro, fu un'ideologia nel cui nome furono commessi molti crimini, anche negli anni 1848-49. Ciò nonostante esiste un'abissale differenza tra il nazionalismo (e l'internazionalismo) degli anni della rivoluzione e quello successivo. Nel 1848, il nazionalismo romantico nutre spesso la speranza, ingenua ma sincera, che sia possibile vivere di mutuo accordo con i cittadini di altre nazioni. La lettera che il 28 marzo Manin e Tommaseo inviarono a diciassette paesi annunciando l'instaurazione della repubblica esprimeva la speranza che «la nostra novella costituzione non farà che stringere viepiù i legami che presto o tardi devono unire tutti i popoli». Il nazionalismo romantico incoraggiò, una «sorta di universalismo differenziato». In seguito gli eserciti dinastici presero il posto della mobilitazione spontanea e l'imperialismo e il razzismo iniziarono la loro lunga e grottesca marcia verso la prima guerra mondiale.

Se per queste ragioni continuo a vedere nel 1848 uno spartiacque di notevoli dimensioni, quale interpretazione si può dare dell'esperienza di Manin e della rivoluzione veneziana e anche veneta? Non v'è dubbio che il 1849 fu l'unico momento della storia veneta del XIX secolo in cui la sua capitale, durante l'eroica difesa contro gli austriaci, assunse un ruolo considerevole, se pur fugace, sulla scena politica internazionale. Questo momento fugace non era destinato a ripetersi. Quando il Veneto divenne infine parte dell'Italia, nel 1866, si trovò marginalizzato nella nuova nazione, parte dell'ampia periferia geografica italiana, con un'economia di modestissime proporzioni rispetto a quella di Torino e di Milano. Inoltre la vita politica delle sue città nei decenni successivi fu fortemente provinciale e priva d'immaginazione, dominata in seguito dal blocco clerico-moderato e antisocialista. Il nuovo stato nazione, in parole povere, non era stato costruito a immagine della repubblica di Manin. In molte città italiane del 1848-49 venne brevemente conquistato un terreno destinato in seguito ad andare perduto per molti decenni. La costruzione del «grande arco» italiano della rivoluzione borghese ne patì le conseguenze e non in modo lieve. La sua storia civile, politica e culturale - quella economica ha altri tempi e ritmi - non sembra riflettere un costante progresso e una crescita organica ma piuttosto una sorta di tragico andamento a singhiozzo, simile a quello identificato da Norberto Bobbio, fatto di brevi rivoluzioni prive di esito chiaro, seguite ineluttabilmente da lunghi anni di stagnazione e reazione.

PAUL GINSBORG