Perché il lavoro delle donne ed il riconoscimento del tempo per il lavoro di cura possono contribuire a far superare la crisi

Venerdì, 06 marzo 2009

un contributo di Elisa Ponzio, responsabile formazione Usr Cisl veneto

Sono in molti a sostenere che la crisi può essere un'opportunità per ripensare ad uno  sviluppo equilibrato tra competitività economica e qualità sociale. Dalla crisi più generale si esce se i governi si danno nuove regole e fanno entrare nell'agenda politica evidenze importanti finora trascurate.

La giornata odierna in particolare richiama due istanze che producono valore economico - crescita del pil per intenderci -  oltre che sociale: la prima si riferisce al lavoro delle donne, la seconda al lavoro di servizio e di cura.

Il nostro Paese, oggi coinvolto nella crisi globale, da alcuni anni cresce poco o nulla. Come sostiene in un interessante saggio Maurizio Ferrera[1], nella ricerca delle soluzioni per rimetterci in movimento si parla di liberalizzazioni, di mercati più efficienti, di fisco più leggero, di ricerca e innovazione; a torto si trascura il contributo che può venire dal lavoro femminile.

A sostegno di questa tesi nel testo citato vengono riportate le esperienze di altri Paesi europei (tra cui Francia e Spagna) e del Nord America da cui emerge che più donne che lavorano significano maggiore crescita economica, più soddisfazione per sé stesse e minor vulnerabilità per le famiglie. C'è un  nodo cruciale che viene esaminato: a fronte di più donne occupate (che oltretutto fanno anche più figli) crescono gli aiuti alle famiglie: per sbloccare l'economia, ma anche la demografia, sono necessarie politiche di conciliazione.

"La conciliazione non è solo una questione di prestazioni sociali ma anche di tempo, o meglio di tempi. Il buon funzionamento di una famiglia in cui anche la madre è occupata richiede tempi flessibili, calibrati in modo da tener conto delle esigenze dei vari tipi di attività: lavoro retribuito, lavori di casa, attività di consumo,gestione dell'economia domestica, relazioni sociali, attività di svago e così via". (p. 86). In Italia, un dato molto concreto è l'ipotesi di aumento del PIL di 0.28 punti l'anno all'ingresso nel mercato del lavoro di centomila donne (studio di Alessandra Casarico e Paola Profeta, Università Bocconi); questo incremento permetterebbe di finanziare per un ampliamento del 30% della spesa pubblica a favore delle famiglie, innescando così un circolo virtuoso.

Questa crescita immediatamente visibile agirebbe da moltiplicatore "non solo sull'occupazione, ma anche sui consumi, sugli investimenti, sull'innovazione: insomma sullo sviluppo, sul dinamismo e sulla competitività dell'intero sistema economico". In altre parole aumenta il reddito familiare, e con esso la sicurezza e i consumi. Secondo alcune stime ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi (assistenza all'infanzia, agli anziani, paramedica, prestazioni per i vari bisogni domestici, lavanderie, e-commerce, ricreazione, ristorazione,...), quasi tutti posti che resterebbero in loco.

E qui si inserisce la seconda istanza: le nostre società  si interrogano su come organizzarsi perché ci sia tempo per il lavoro di servizio e di cura? E' un dato di fatto che gli esseri umani, per molte ragioni, hanno bisogno di un certo tipo di sostegno e di assistenza. Ciascuno di noi potrebbe trovarsi in una situazione di difficoltà o di disagio a causa di malattia o di problemi sociali; vi è inoltre la necessità di prendersi cura di bambini, anziani, disabili, malati.

Se le persone non possono essere lasciate sole è necessario individuare servizi al fine di migliorarne le condizioni di vita. I servizi di cura sono soprattutto questione di tempo. Tale evidenza tuttavia è raramente  riconosciuta. Eppure mi sembra di attualità  quanto già metteva in evidenza Laura Balbo (1987)[2],  analizzando le politiche attive in Svezia  "l'obiettivo che si persegue non è più definibile come "piena occupazione" termine che non corrisponde alle caratteristiche della società attuale e dei modi di vivere della gente, oggi. Ma è il diritto di tutti di lavorare, intendendo non solo l'occupazione  retribuita, tradizionalmente individuata "il lavoro", ma anche il lavorare producendo servizi personali, assistenza, cura e le attività di autoformazione o formazione permanente. Le persone sono retribuite in quanto ciò che si supporta sono strategie o progetti personali di vita (studiare, cambiare lavoro, crescere un figlio, assistere un parente anziano e dipendente) .....  Qui c'è un'invenzione sociale ... l'idea di redistribuire tempo e lavori di servizio e di cura tradizionalmente assegnati in modo del tutto asimmetrico, alle donne. Ma non si tratta soltanto di allocare diversamente che in passato i carichi e i tipi di lavoro, ma anche di rendere visibili i cambiamenti nella natura  e nel valore dei lavori, e di legittimare i diversi lavori come aventi pari rilevanza nelle vite individuali e pari utilità sociale ( p.134-135).

Non è forse il momento che si prendano seriamente in considerazione queste riflessioni? La sfida che dobbiamo vincere, come sottolinea anche Ferrera, è culturale prima che finanziaria e politica.

Venezia- Mestre 8 marzo 2009

[1] Maurizio Ferrera,  Il fattore D, Mondatori 2008

[2] Laura Balbo, Una cultura dei diritti quotidiani, Franco Angeli1987

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