Verba manent

Lunedì, 23 aprile 2012

Le parole rimangono, più degli scritti; per questo bisognerebbe utilizzarle con attenzione.

In questi mesi di crisi italiana, successiva e conseguente a quella mondiale (già superata in molti altri Paesi) abbiamo avuto modo di comprendere quanto peso abbiano le parole. Spread e Borse (e quindi debito pubblico, patrimonio finanziario delle aziende, risparmi personali) salgono o scendono sulla base di dichiarazioni di questo o quella personalità, autorità, istituzione, rappresentante di interessi.

Per un Paese come il nostro, che ogni anno deve pagare 70 miliardi di euro di interessi sul debito pubblico (lo ha ricordato il Presidente Napolitano, durante la sua visita in Giordania suscitando, parole sue, “grande impressione"), di chi fa opinione dovrebbe centellinare le parole. In effetti per qualche mese è stato così, dopo l’insediamento di Monti: tutti quelli che contano hanno fatto uno sforzo in questo senso.

La diga della moderazione nelle parole (che non è melina o indifferenza) non ha tenuto però quando si è arrivati a discutere sul tema della riforma del mercato del lavoro. Da una parte si è messo in allarme il mondo del lavoro paventando licenziamenti di massa, cancellazione di diritti primari, una apocalisse occupazionale in una fase già di crisi; dall’altra, usando la stampa internazionale, si è descritta la riforma come controproducente per le aziende e per nulla utile ad attrarre nuovi investimenti. Chi inveiva è passato agli osanna e viceversa.

La goccia del trabocco o del rinvaso è stata quella del possibile reintegro o meno in alcuni particolarissimi casi di licenziamento individuali per motivi economici. Dunque nulla che giustifichi dichiarazioni di guerra, allarmi sociali o scampanii di festa.

I danni di queste parole eccessive non saranno facili da recuperare. Tra i lavoratori, perché si è data l’idea di una nuova fregatura, tra gli imprenditori a cui la si è presentata come una grande mancata occasione, agli investitori internazionali che siamo ancora inattendibili.

Ora a questo mezzo disastro va posto rapidamente rimedio. Un compito che non può essere lasciato solo al governo.

Qualcosa di più dovrebbe fare la politica evitando di sbandierare vittorie unilaterali che riaprono il conflitto o di minacciare rivalse per tutelare i presunti sconfitti. Non stiamo chiedendo un silenzio acritico o il cloroformio della ragione per evitare le reazioni dei mercati. Pensiamo piuttosto che tutti debbano “stare sul pezzo” con senso di responsabilità e senza secondi fini.

Vale per la politica la cui autorevolezza è a pezzi e che non può farci pagare due volte, con il finanziamento pubblico e con l’instabilità politica, ogni scadenza elettorale. E non solo per quella nazionale. Alle Regioni è affidata, come previsto dalla Costituzione, la realizzazione della parte più qualificata della riforma e cioè la formazione professionale e le azioni per ricollocare al lavoro chi lo ha perso.

Vale per sindacati ed imprenditori che dovrebbero già ragionare insieme su come gestire al meglio le nuove regole del mercato del lavoro e gli impegni innovativi che ad essi sono stari affidati.

La crescita, nuova frontiera dichiarata da tutti, non ce la porta a casa Monti girando per il mondo mentre qui ci si accapiglia. Il Veneto, le sue istituzioni e rappresentanze sociali, hanno una opportunità in più per produrre fatti, evitando così che, per l’ennesima volta, il fiato delle parole faccia volar via quel che si è, faticosamente, messo per iscritto.