Con i mineros di San Josè

Giovedì, 14 ottobre 2010

Ce l'hanno fatta. Uno alla volta sono usciti dal profondo della terra, dalle gallerie dove lavoravano tutti i giorni trasformate in carcere, per riabbracciare i propri famigliari. Siamo con loro e festeggiamo con loro, con i trentatré mineros di San Josè nel deserto di Acatama in Cile, la riconquista della vita e della libertà. Siamo con loro fin da quando, 70 giorni fa, i media hanno annunciato quella che poteva diventare l'ennesima tragedia di chi lavora sottoterra, e li vi rimane sepolto.
Ci riconosciamo nel loro orgoglio. L'orgoglio di avercela fatta, di aver superato una difficilissima prova. Non sempre è così. In questo lavoro gli "incidenti" si risolvono più spesso in drammi che coinvolgono, a volte, centinaia di vite e di altrettante famiglie. Lo sappiamo bene come italiani, di tutte le regioni, dai racconti dei nostri famigliari emigrati nel dopoguerra nelle miniere della Francia e del Belgio: Marcinelle è ancora l'emblema di quegli anni pieni di speranze come di paure e dolori. E lo sappiamo per le storie di chi ha lavorato nelle miniere del nostro Paese, del carbone in Sardegna, del zolfo in Sicilia (con i carusi, operai- bambini a scavare), del mercurio del Monte Amiata oppure dell'amianto in Piemonte: non sottoterra ma pericoloso e mortale comunque.
Quella del minatore è la fatica del lavoro che incute rispetto solo a nominarla, ancora oggi. Lavoro duro, in posti difficili, spesso pericolosi. Era minatore anche il lavoratore, ancora oggi, più famoso al mondo: Stachanov, sopravvissuto allo Stato e al regime politico che ne aveva fatto un eroe per restare sinonimo di chi si dedica totalmente al lavoro.
Così viene spontaneo sentirsi vicini ai minatori di qualsiasi Paese del mondo quando arrivano notizie come quelle che ci giunsero il 5 agosto scorso dal Cile, minatori intrappolati a oltre 600 metri sottoterra o, peggio ancora, quando ci parlano di lavoratori morti per lo scoppio di gas o sepolti dal crollo delle gallerie. Emozioni che ci toccano, magari per pochi minuti, sia che si tratti di cinesi che di africani, di latino americani come di russi.
Essi ci ricordano che la fatica del lavoro, quella vera, quella che consuma le forze e piega anche i più forti è, ancora oggi, spesso accompagnata dalla insicurezza, dalla mancanza di misure di tutela della salute come pure dalla disattenzione o, peggio ancora, dalla indifferenza nei confronti della vita del lavoratore. Probabilmente è la categoria di lavoratori che, al mondo, più ha pagato la mancanza di misure di sicurezza con la perdita di vite umane, senza contare chi dalla miniera ne è uscito mutilato o ammalato di silicosi o peggio.
I trentatré di San Josè, tra i quali non manca l'immigrato (dalla Bolivia) sono diventati, senza volerlo e giocoforza, eroi. Ed è giusto così.
Noi però speriamo, e lottiamo, affinché non ci siano più eroi per queste ragioni.
Il lavoro quotidiano non può essere infatti un atto eroico ma una parte importante della vita delle persone che mette a prova la loro intelligenza, determinazione, capacità, duttilità, resistenza, talento, volontà, conoscenza e quanto dell'umano altro può servire.
Viva dunque i mineros di San Josè che abbracciamo da lontano con le loro famiglie e viva ancor di più il Paese che non genererà più di questi eroi.

internazionale, Franca Porto