Trump e i populisti nostrani

Lunedì, 23 gennaio 2017

Il discorso di insediamento di Donald Trump ha lasciato intatti tutti i dubbi sulla futura politica del 45° presidente degli Stati Uniti d’America. E’ difficile capire se fa sul serio o se, nonostante le parentesi populiste, la sua azione sarà improntata da un più sano realismo.

Trump, milionario con esperienza in affari immobiliari e casinò, ha una esperienza politica pari a zero, è stato eletto nonostante il suo stesso partito, con due milioni di voti in meno rispetto alla sua contendente e con una forte interferenza del governo russo nella campagna elettorale. Ha comunque vinto ma non in gran parte degli Stati che si affacciano sull’Oceano Atlantico e Pacifico, i più vivaci e trainanti per l’economia USA.

E’ anche il primo populista a tutto tondo che va al potere in un paese democratico, ad economia avanzata e in grado di influenzare le sorti di tutti gli altri paesi del mondo.

Davanti il Campidoglio ha ribadito i fondamentali che caratterizzano il pensiero populista ovunque esso si dichiari presentando la propria nazione come una terra devastata e da ricostruire in quanto vittima del vecchio potere politico, degli “altri” (a partire dall’industria straniera e dagli immigrati) e infine di una politica estera che ha difeso i confini di altre nazioni ma non quelli propri.

Trump ha anche confermato la sua ricetta miracolosa: alzare barriere per fermare merci e persone, chiudersi in casa, fare solo gli affari propri e comprare e assumere solo americano. In questo modo “l’America tornerà a vincere, come mai prima. Ci riprenderemo i nostri posti di lavoro. Ci riprenderemo i nostri confini. Ci riprenderemo la nostra ricchezza”. Riprendere, perché qualcun altro se ne è appropriato: l’America è stata derubata.

I populisti europei e nostrani hanno festeggiato. Come se quei prodotti e quella industria straniera che The Donald intende contrastare e cacciare dal mercato USA non siano anche quelli europei, italiani e veneti. Forse perché anche loro sognano di costruire le loro barriere doganali senza rendersi conto che a farne le spese sarebbero i paesi e le regioni che vivono sull’export.

La differenza è che lui non contesta, ma esalta, la forza degli Stati Uniti d’America mentre i nostri puntano a smantellare l’Unione degli Stati d’Europa.

Nonostante i ripetuti richiami alla difesa degli interessi degli operai USA, noi sappiamo come anche il sindacalismo americano, che questa politica non porta a nulla di buono e di duraturo per i lavoratori. I mercati, i capitali, le economie vanno certamente regolati dalla politica ma non con misure che, almeno nelle parole, mettono gli uni contro gli altri, nazioni contro nazioni, produttori contro produttori.

Non a caso, in nome del popolo che attraverso lui, per la prima volta nella storia, si sostanzia al potere, il neo presidente come primo atto concreto ha firmato per congelare l’Obamacare e quindi smontare quel minimo di assistenza sanitaria pagata (anche) dallo Stato che i poveri americani (20 milioni) beneficiavano per la prima volta nella storia.

Prepariamoci, perché nei prossimi mesi avremo a che fare anche con i tanti, nostri, piccoli Trump in erba.