Trent’anni fa l’esplosione a Bologna «Fu come il Vajont»

Lunedì, 02 agosto 2010

Trent'anni fa, 2 agosto 1980, stazione di Bologna. Sulla facciata che dava su una piazza in stato d'assedio, nell'atrio lastricato di vetri in briciole, sotto le pensiline accartocciate come da un uragano, tutti gli orologi segnavano, immobili, le 10.25. 19
La loro era la prima e più immediata testimonianza della violenta esplosione che a metà mattina aveva raso al suolo oltre cinquanta metri di una stazione affollata come può esserlo un nodo ferroviario strategico (di media 500 convogli ogni 24 ore) nella giornata-spartiacque dei due grandi versanti delle ferie. Il bilancio ufficiale della questura, partito da 57 morti e 180 feriti, si sarebbe attestato a 85 morti e 200 feriti. La vittima più giovane: Angela Fresu, 3 anni. La più anziana: Antonio Montanari, 86.
"Come una bomba d'aereo", la definì Franco Ricciardi, tenente colonnello, comandante del nucleo di polizia giudiziaria di Bologna, impegnato nelle operazioni di primo intervento. In quel momento, diversi treni stavano arrivando e partendo. Sul primo binario era in sosta il 13534, un treno straordinario ribattezzato "Schweiz-Adria Express", che si effettuava solo d'estate, tra il 21 giugno e il 14 settembre: collegava Ancona con Basilea, a bordo c'era il tutto esaurito, la partenza era prevista a momenti. Le due sale d'attesa di prima e seconda classe erano affollate. "Un boato, un'enorme fiammata; l'edificio si è alzato su se stesso e poi è ricaduto a pezzi", raccontò un taxista che stava entrando proprio in quel momento nel piazzale antistante. "Stavo battendo a macchina un rapporto in ufficio, ho sentito lo scoppio, sono corso verso le pensiline e ho visto l'inferno", riferì Rocco Di Rienzo, appuntato della Polfer, in servizio dalle prime ore della mattina.
La scena era tremenda. Dilaniati dall'onda d'urto, ustionati dall'esplosione, mutilati dai pezzi di trave e di strutture metalliche divelti dallo scoppio, decine di corpi giacevano a terra in un impasto di calcinacci e di sangue. Sul piazzale, i cadaveri di due taxisti riversi al suolo. Al settimo binario c'era il panico tra decine di bambini fermi sotto la pensilina, che alle 11.16 avrebbero dovuto partire in gruppo con un vagone speciale prenotato dall'Opera diocesana di Bologna per raggiungere la colonia montana di Dobbiaco, in Alto Adige. Per 120 interminabili secondi, lunghi quanto una vita, fu il caos totale. Di fronte ai feriti straziati che urlavano, tra gli impotenti e atterriti testimoni che cercavano disperati il parente o l'amico al loro fianco fino a un attimo prima, i pochi soccorritori non sapevano neppure da dove cominciare. Ma già alle 10.28 la prima ambulanza era arrivata sul piazzale; e alle 11 le autolettighe all'opera erano una sessantina, mentre gli autobus di linea venivano utilizzati per trasportare all'obitorio le salme.
Bologna, sconcertata e sotto choc, viveva ora per ora la sciagura, mentre tornava alla mente l'attentato che nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 aveva fatto saltare in aria a San Benedetto val di Sambro, non distante dalla città, il treno Italicus, provocando 18 morti e 48 feriti; giusto il giorno prima c'era stato il rinvio a giudizio. Molte persone si presentarono spontaneamente agli ospedali per mettersi a disposizione; tra di loro, diversi studenti di Medicina.
Ma nonostante tutta la buona volontà e la gara di generosità, i bollettini erano di sconfitta: aumentava il numero delle vittime, diversi feriti erano in condizioni disperate soprattutto in seguito alle ustioni.
Così, il primo sabato di agosto tramontava su una città squassata e attonita, dove i mille drammi personali sfociavano nel mare di una stessa tragedia. In stazione il maresciallo Bartasi, comandante a interim del posto Polfer, cercava disperatamente notizie della figlia, impiegata di una compagnia turistica i cui uffici si trovavano proprio a ridosso della zona dell'esplosione.
Sotto la pensilina del primo binario, che sembrava tenere per scommessa, don Bruno Camorani impartiva la benedizione alle salme estratte dalle macerie. Era lì, ininterrottamente, dalle 10.40 del mattino. In auto, diretto verso la tangenziale per raggiungere Imola, aveva sentito la notizia dalla radio, e si era precipitato in stazione. "Sembra il Vajont", aveva commentato con un filo di voce resa sgomenta da questa logica dell'assurdo. Una logica che lasciava dietro di sé, tra le lenzuola e i flaconi di flebo di un improvvisato ospedale da campo, avanzi di modeste colazioni e valigie di pelle, zoccoli sdruciti e brandelli di vestiti eleganti. La morte aveva ricomposto le differenze.
Francesco Jori

(su gentile concessione de Il Giornale di Vicenza)

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