Considerazioni

Martedì, 05 ottobre 2010
marco-betti

Una ragazza poco più giovane di me - oltretutto mia concittadina - che si arma di un fumogeno per spengere un' opinione, certamente criticabile, ma pur sempre libera e legittima. Una ragazza, probabilmente benestante e piena di opportunità, che sceglie di attaccare il sindacato - perché non scordiamocelo, questo è un attacco diretto alla CISL ma che colpisce l'intero sindacato - ignorando come nella realtà l'azione della CISL si esprima in migliaia di realtà produttive, coinvolgendo delegati e operatori che con sacrificio e passione ogni giorno cercano di tutelare i diritti dei lavoratori minacciati dalla competizione globale.
Quello che colpisce però non è tanto il gesto violento, quanto l'idea statica e monolitica che hanno di un sindacato. Ciò riduce la CISL alla figura del suo segretario, e non consente di descrivere la pluralità interna di un'organizzazione complessa che conta alcuni milioni di iscritti. È questo ciò che più mi spaventa - e che pensavo fosse venuto meno con la fine delle ideologie -, la banalizzazione estrema della complessità che inevitabilmente sfocia nella chiusura, nell'autocompiacimento, nella contrapposizione tra un "noi" e un "loro".
Il rifiuto del tentativo di "andare oltre" lo stereotipo, di esprime critiche legittime ad un segretario e alla sua segreteria attraverso l'utilizzo degli strumenti offerti dalla dialettica democratica, non può altro che produrre odio. Un odio che colpisce la CISL nel suo complesso, e non attacca soltanto i suoi rappresentanti.
Ma questo risulta inutile, poco interessante, se gli amplificatori vomitano slogan nei quali la CISL è - solamente - "serva dei padroni". Non si considerano gli accordi, le battaglie comuni, le scelte difficili; tutto questo farebbe infatti emergere la complessità del ruolo di un sindacato. E allora è meglio ricorrere parole chiave ripetute da cattivi maestri e colpire il simbolo di un'organizzazione.
Più difficile è cercare di comprendere realmente i fenomeni, sforzarsi di capire le ragioni dell'altro e impegnarsi per migliorare realmente la qualità del lavoro. Ma una tale complessità distrugge le certezze presunte. Diventa allora molto più semplice ragionare per cliché, scegliendo di immaginare un mondo del lavoro alternativo a quello di chi nel mondo del lavoro ci opera davvero, un po come avveniva in "La classe operaia va in paradiso".
Allora mi chiedo: quella ragazza cosa si immagina facciano i sindacalisti della Cisl? Conosce davvero le fatiche e le sconfitte che una sindacalista raccoglie ogni giorno? Perché nessuno le ha spiegato quanto sia difficile avere nelle mani il futuro dei lavoratori, delle loro famiglie? Forse perché, quando si rifiuta il confronto - anche aspro -, la cosa più semplice diventa trovare un nemico, definendo la propria identità in negativo, contrapponendola a quella dell'altro.
E ritorniamo alla logica del "noi" e del "loro", senza comprendere come, per riuscire davvero ad immaginare un "futuro", mai come oggi sia necessario un lavoro comune: un dialogo tra diversi. Ma da questi ragazzi e da queste ragazze, spesso miei coetanei, non arrivano spinte innovative, non arrivano idee nuove; ci si arrocca su quelle che sono state le conquiste dei nostri padri, rifiutando di pensare e riflettere su quello che davvero è il nostro mondo, estendendo quel percorso di riflessione indispensabile per arrivare alla creazione di una piattaforma comune sulla quale costruire le nostre battaglie. Le nostre, non quelle delle altre generazioni; i nostri sogni, non quelli degli altri.
Come era lecito aspettarsi, tutti i quotidiani hanno criticato l'azione, soprattutto dalle colonne dell'Unità è arrivata una presa di posizione netta e senza fini politici, ma dove sono gli intellettuali? Dove sono le figure come Pasolini che, dopo i fatti di Valle Giulia, scriveva: "Avete facce di figli di papà.../ siete pavidi, incerti, disperati.../ Quando ieri avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti. / Perché i poliziotti sono figli dei poveri, / vengono da subtopaie, contadine o urbane che siano". Ebbene, quanti intellettuali hanno avuto il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo, facendo della critica alla violenza una proposta di progresso?
Mi domando allora come sia possibile, se non c'è il coraggio di guardare avanti, recidendo il cordone ombelicale con il mito degli anni 70, abolire lo stato di cose presente. Mi domando cosa spinga queste persone ad agire: l'altruismo e il disagio per la propria sopravvivenza quotidiana o soltanto l'autocompiacimento identitario? E credo sia anche normale misurarsi con gli anni 70, con quel periodo che sul campo ha lasciato così tante giovani vite. È quindi legittimo chiedersi se il conflitto sociale che attraversa la nostra società possa degenerare in una cieca violenza. Se la nostra democrazia sia pronta ad affrontare una nuova stagione di scontri di piazza, di morti e feriti.
L'idea che mi sono fatto è diversa. Nonostante il clima pesante, la sensazione di scontro latente e la crisi politica, la mia percezione è che la maggioranza degli italiani rifiuti non solo la violenza ma soprattutto il clima di scontro perenne, a cui siamo stati assuefatti dalla politica. La nostra società ha interiorizzato il rifiuto della violenza, nonostante la profonda crisi economica, sociale e politica, non si sono registrati scontri di piazza o tensioni particolari. Non siamo insomma agli anni 70. Non è dunque un caso che le campagne elettorali degli ultimi anni si siano giocate sui temi della sicurezza - più che della legalità - sul desiderio di tranquillità e ordine, tipico delle società dei consumi. Ma questo, aimè, non ha necessariamente un effetto positivo sulla salute della nostra democrazia e sulla quella visione comune che deve nascere attorno alle oramai inderogabili riforme.
Semmai si è verificato il contrario, non solo si è diffusa la consapevolezza della situazione in cui ci troviamo e dei rischi che corre il paese, ma allo stesso tempo si è verificata una generale rimozione del conflitto. La questione centrale diventa allora comprendere il perché di tale rimozione. È nata una nuova coscienza civile o questa surreale tranquillità copre soltanto apatia e sfiducia nelle istituzioni? La risposta, come spesso accade, credo debba essere ricercata nel mezzo. Esiste sicuramente una forte sfiducia in ogni istituzione rappresentativa, ma è altrettanto vero che il superamento delle tradizionali appartenenze ha come esito la formazione di cittadini meno strumentalizzabili. Diverso è anche il contesto internazionale, che ebbe un peso non trascurabile nella politicizzazione del movimento studentesco, così come quello dei partiti di sinistra, oggi messi spesso in difficoltà dalle rivendicazioni tanto degli autonomi quanto dei movimenti.
E questo forse spiega il perché, a differenza di quegli anni e nonostante l'assenza di istituzioni forti come PCI e CGIL, il disagio sociale non sia scaduto, soprattutto da parte dei giovani, nella protesta, anche violenta. Nasce allora un paradosso: l'assenza di istituzioni forti ha ridotto l'incentivo identitario e quindi la capacità di mobilitazione politica, ridimensionando la formazione di gruppi antagonisti.
Nonostante questo, la debolezza delle istituzioni tradizionali diventa un serio problema se spostiamo più in avanti nel tempo la nostra analisi; in un contesto di crisi sociale e diffusa apatia, partiti e sindacati devono riuscire a giocare un nuovo ruolo, promuovendo la partecipazione e il confronto per rivitalizzare la dialettica democratica e ritrovare quella legittimità indispensabile per guidare le tensioni che si presenteranno lungo nuove linee di frattura.
La percezione che ho è infatti che, oltre alla "questione giovanile", spesso dimenticata, si stia diffondendo un conflitto latente su base etnica. Di nuovo un "noi" ed un "loro", questa volta però in un contesto differente dove la crisi di rappresentanza rischia di sfociare nella semplificazione populista. La crescita dei gruppi di destra nelle scuole - da Forza Nuova a Casa Pound a Blocco Studentesco - e dei partiti xenofobi in tutte le democrazie europea - anche in quelle considerate mature - possono rappresentare un catalizzatore per la radicalizzazione delle nuove generazioni - soprattutto per i ragazzi che frequentano le superiori - ed è su questo fronte che deve essere tenuta alta la guardia. Il nuovo conflitto sarà fondato su base etnica piuttosto che produttiva perché, nonostante buona parte degli italiani si percepisca ancora come "classe operaia", le rivendicazioni hanno nella maggioranza dei casi una matrice post-fordista. Non esiste più una "coscienza di classe" e oltretutto, nel passaggio da società industriale a società dei servizi, sono mutati i rapporti di forza, facendo intravedere l'opportunità legata ad una differente gestione della frattura capitale/lavoro.
Pertanto, più che la protesta violenta di singoli - spesso portata avanti da attori isolati o gruppi minoritari -, penso sia necessario guardare alle possibili tensioni che nei prossimi anni potranno verificarsi in quelle nuove generazioni realmente esposte al rischio di rimanere escluse dai processi di mobilità sociale. Questo non esclude tuttavia che anche oggi, soprattutto dalla "base", possano crescere forti tensioni, ma credo che la maggioranza dei lavoratori - come è accaduto a Pomigliano - abbia dimostrato il livello di maturità raggiunto, scegliendo di sacrificare la lotta fine a se stessa, la rincorsa del "sogno", per il bene comune. E questa è una conquista del mondo del lavoro che la violenza non potrà ridimensionare.
Così, se l'aggressione a Bonanni, come gli altri segnali di intolleranza e violenza possono essere interpretati come fenomeno allarmante, diventa indispensabile monitorare costantemente la situazione e ricompattare la rappresentanza del mondo del lavoro. Le organizzazioni sindacali devono fare sentire il loro peso istituzionale, facendo terra bruciata attorno alle stigmatizzazioni che i soliti benpensanti potranno promuovere nei prossimi anni, ancora una volta, a danno dei più deboli.
Non è una questione soltanto sindacale, anche se riguarda la CISL e chiama in causa la CGIL - quella stessa CGIL che con Trentin non aveva consentito "esperimenti sul corpo vivo della classe operaia" -. Tutto ciò porterà inevitabilmente al conflitto, ma la presenza di istituzioni forti e radicate nel mondo del lavoro potrà contribuire a mostrare come le semplificazioni ideologiche mascherino in realtà situazioni complesse, ridimensionando la corsa al ribasso della politica.
E allora, perché la sinistra non riparte da qui, comprendendo che qualsiasi innovatore, qualsiasi riformista sarà sempre visto come un nemico? Perché non lavorare per ricucire la frattura generazionale che coinvolgerà le giovani generazioni di italiani e immigrati nei prossimi anni?

Marco Betti
Dottorando in Sociologia all'Università di Firenze
Ottobre 2010

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