Il Veneto cresce se nel rigore c’è più Europa

Mercoledì, 11 luglio 2012

I provvedimenti del Governo di revisione della spesa pubblica che seguono quelli per la sua riduzione pongono ancora in maggior evidenza il nodo del Patto di Stabilità interno, cioè del vincolo che impone a tutti gli enti autonomi della Repubblica e non solo allo Stato centrale limiti precisi di spesa e di indebitamento.

Il Patto di stabilità italiano è una applicazione del patto sottoscritto nel 1997 ad Amsterdam tra i Paesi europei che, dopo Maastricht si accingevano a dotarsi di una moneta unica, l’euro. Per avere una moneta forte gli europei concordarono sulla necessità che tutti i proprietari dell’euro avessero alcuni punti fermi, progressivamente sempre più omogenei, nei bilanci. Il patto indicò così due parametri: deficit pubblico (dove per pubblico si intende Stato, Regioni, Province e Comuni) tendenzialmente verso il 60% del PIL e indebitamento netto (sempre relativo a tutti quelli di prima) sotto il 3%. Il Patto interno italiano, che nasce nel 1999, si presenta con alcune caratteristiche che lo rendono poco “europeo”. Il nostro Patto è solo verticale e fissa vincoli assoluti per tutte le amministrazioni (centri di spesa pubblica), dallo Stato centrale al più piccolo dei oltre 8 mila Comuni italiani. Se il coinvolgimento di tutti è corretto e obbligato, oltre che equo, non lo è altrettanto che non si tenga conto di altri parametri come ad esempio il PIL della singola regione, il suo comporto specifico alla massa del debito pubblico, i saldi effettivi dei conti di Comuni e Province.

Così se per l’Unione Europea tutti i gatti non sono grigi e i conti si fanno a saldo (tanto che ci siamo beccati una procedura di infrazione nel 2005 dopo che dal 2003 eravamo fuori dai parametri) applicando così una visione federalista e responsabilizzante di tutte le parti in gioco (governi nazionali, governo europeo, ecc.) per la versione interna la stabilità è costruita sul controllo totalizzante che azzera federalismo e responsabilizzazione.

In questa situazione il Veneto, che senza enfatizzare e generalizzare, in molti casi è dentro i parametri della stabilità europea e ben concorre al prelievo fiscale determinato dall’emergenza nazionale (in percentuale, questo sì, sul proprio PIL), si trova sempre più dentro una tenaglia che stringe e comprime le sue risorse economiche e finanziarie altrimenti disponibili per la crescita.

Siccome chi si occupa di politica, a meno che non sia un asino, sa bene che il rigore dei conti, crisi o non crisi, ci accompagnerà per almeno altri 10 anni, è chiaro che si devono rivedere le modalità di applicazione del Patto di stabilità interno proprio sulla logica, europeista, di federalismo e corresponsabilità. In questo modo sarà chiamato a stringere la cinghia chi (Regione, Provincia, Comune) continua a fare la cicala mentre chi è già formica potrebbe impegnarsi compiutamente a fare buoni investimenti (senza polemica va anche ricordato che spesso chi ha la spesa fuori parametro, al contrario di chi è già in regola, ha anche la maggiore evasione fiscale, in percentuale, e la minore capacità di investimenti produttivi).

In caso contrario si andrà a prosciugare le risorse di chi, come il Veneto e altre regioni, può rimettere in moto la crescita. Vorremmo ricordare e sottolineare che l’accordo di Amsterdam venne chiamato, e non a caso, con il nome di “Patto di stabilità e crescita”. Non è pensabile che quello interno, italiano, sia un “Patto di stabilità e declino”.

Franca Porto

Segretaria Cisl Veneto