Cittadinanza a chilometri zero

Mercoledì, 15 maggio 2013

La felice nomina da parte del capo di governo di una donna di origine congolese, la dott.ssa Cecile Kyenge, a ministro dell’integrazione a fatto riaprire il dibattito sul tema dei diritto di cittadinanza per chi abita il nostro Paese, così come aveva più volte sollecitato il presidente Napolitano nella scorsa legislatura. La questione non può essere risolta con la legislazione attuale, questo è assodato. Giorni fa una maestra di uno dei tanti paesini del Veneto mi raccontava di come i suoi allievi (italiani) rimanevano stupiti e non riuscivano a comprendere perché il loro compagno di banco (figlio di immigrati), conosciuto alle materne, che abitava sulla strada in fianco e che cui condividevano giochi e fantasie tecnologiche, non fosse anche lui italiano.

Una domanda che coinvolge, nella sua semplice logica, tutti coloro che hanno a che fare con un cosiddetto “immigrato di seconda generazione”. Ma veniamo al dunque.

L’acquisizione della cittadinanza italiana è ancora oggi determinata dall’antico “ius sanguinis”, regolata da una normativa paradossale (e vessatoria in alcuni aspetti) e sopraffatta da un sistema burocratico che ha dell’incredibile.

Cominciando dalla fine: Non bastano 10 anni di residenza ininterrotta per acquisirla: ne aggiungiamo altri 2 ma più generalmente tre, quale tempo necessario per la conclusione della pratica. La Repubblica si presenta così all’aspirante neo cittadino nella sua veste peggiore: una macchina burocratica inavvicinabile e che non funziona.

Andiamo alla normativa solo per chiarire che non vi è nessun obbligo di conoscere la lingua italiana e nemmeno la Costituzione Italiana. La lingua la si deve conoscere, giustamente, per avere il permesso di soggiorno di lungo periodo (ce lo ha imposto l’Unione Europea) ma non, paradossalmente, la cittadinanza. E’ triste però che siano non pochi coloro che, rivestendo ruoli istituzionali, si lamentino di come questo presunto requisito non venga considerato: non è richiesto, mentre sarebbe richiesto conoscere le norme prima di parlarne.

Arriviamo però al nocciolo duro, la difesa strenua dello ius sanguinis le cui ragioni sono state seppellite dalla scienza  che considera le affinità e le differenze per sangue solo sulla base del gruppo (chiedere all’AVIS). Se ci sbarazziamo delle gabbie dell’ideologia e della consuetudine ragionando in modo critico è difficile darci una immagine concreta di una cittadinanza che passa tramite il passaporto del genitori.

Quando si parla di nazione si pensa ad una cultura e ad una storia comune che, solo in rarissimi casi, non ha incluso altri. Quando di parla di un Paese si pensa ad un territorio, ad un suolo: la patria è terra, suolo (il suol natio dei Fratelli d’Italia).

 I figli degli immigrati crescono in questa cultura, sono nati e vivono in questo suolo, sono già partecipi della nostra storia. Sono quindi parte della nazione e parte del Paese. Perché non dovrebbero esserlo, a pieno, anche di uno Stato che riconosca la cittadinanza nata, costruita e vissuta a chilometri zero?