Autonomia Veneto: ridurre lo spread tra parole e fatti

Lunedì, 17 settembre 2012

Il dibattito sull’autonomia della nostra regione è sempre utile, specie se diventa stimolo per individuare proposte sostenibili e praticabili nel quadro di quelle responsabilità nazionali ed europee a cui siamo tutti, istituzioni pubbliche e rappresentanze sociali, siamo tenuti. La discussione su un referendum rientra in questo contesto. Di più. Noi diciamo che si può evitare di spenderci sopra soldi (pubblici) e tempo: possiamo dare per scontato che i veneti, come i cittadini di ogni altra parte d’Italia, sono sicuramente favorevoli ad una maggiore autonomia specie se da questa derivano più risorse economiche da investire in casa o, perlomeno, una più equa ripartizione degli impegni per il pagamento del debito pubblico. Tornado al tema.  

Il primo ambito di autonomia è quello istituzionale. Senza cercare impossibili nuove architetture che rimuovono i fondamenti della Repubblica o che richiedono improbabili riforme costituzionali, rimane sempre aperta la via maestra che la Costituzione stessa ci indica: chiedere ed ottenere quel consistente pacchetto di prerogative indicate nell’art. 117. Chi ce lo può negare? Il centro sinistra certamente no, visto che questo disposto è sua opera, il centrodestra neppure, dato che lo ha sempre ritenuto come il minimo dovuto. Aggiungo: facciamo uno sforzo in più e utilizziamo le norme di riordino delle autonomie locali come una opportunità per rafforzarne la consistenza e quindi la capacità di governo autonomo (comuni più grandi, province più vaste, città metropolitana).

Perché poi non puntare, insieme, ad una revisione dei criteri con sui si è costruito negli anni il patto di stabilità interno? Possiamo fare riferimento a quelli in uso in altri Paesi della UE.

Poi c’è l’autonomia politica intesa come la capacità di “governare” delle amministrazioni pubbliche come pure delle Parti Sociali. In Veneto proprio quest’ultime hanno più volte dimostrato di non assumere come confine invalicabile il perimetro delle relazioni sindacali nazionali (più esposte al rispetto di complessi equilibri). Allora perché non procedere su questa strada? Molte cose si possono fare usando le nostre prerogative, specie dopo la riforma, oramai consolidata, del sistema contrattuale e quella, in fase di avvio, del mercato del lavoro. Pensiamo alla bilateralità, agli strumenti per tutelare ed allargare l’occupazione, al sistema della formazione professionale (il prof. Prodi ne ha recentemente messo in risalto il ruolo primario nella competitività del sistema manifatturiero), alla contrattazione aziendale e settoriale di territorio (sarebbe una valida risposta all’invito del presidente Monti). Tutte pratiche di vera autonomia, oltretutto necessarie, se non indispensabili, per uscire dalla crisi. Aggiungo: perché non ragionare, magari in via sperimentale, di rendere più attrattive agli investimenti privati alcune specifiche aree territoriali con accordi (avvisi comuni) dove mettiamo in gioco le nostre prerogative contrattuali chiedendo un pari impegno delle istituzioni pubbliche? Insomma: credo sia ora di ridurre le distanze tra l’autonomia che si pretende a parole e quella che sarebbe già praticabile nei fatti.