Profughi: i primi furono i veneti, nella Grande Guerra

Venerdì, 01 agosto 2014

Profughi. “Oziosi, sospetti ladri e donne equivoche. Danno fastidio ai bagnanti. Non manca qualche ubriaco… molesto e prepotente” e poi “vivono in vere tane: una stanza, senza finestre, dove c’è la latrina, il fornello e le brande” tanto che è necessaria una vigilanza sanitaria costante per evitare il propagarsi di malattie attribuibili alle scarse condizioni igieniche anche perché qualcuno denunciava che è “un anno che indossiamo l’abito che ci restò nella fuga”. Sono brani di testimonianze e documenti tratti dal libro di Daniele Ceschin “Gli esuli di Caporetto” (Laterza).
I profughi di cui racconta lo storico veneto sono le centinaia di migliaia di friulani, trentini, giuliani, dalmati ma soprattutto veneti (mezzo milione) che dovettero abbandonare le proprie case e cose dopo la rotta di Caporetto e trovare rifugio oltre il Piave fino alla Sicilia.
Spesso malvisti da chi li ospitava perché mangiavano il loro pane, comunque intrusi e guasta feste e perfino essere cannibali (più precisamente: di mangiare i bambini). Le donne venete erano considerate scostumate, gli uomini inclini all’ozio. Se invece trovavano lavoro erano accusati di portarlo via ai locali. Peggio che peggio il fatto che percepissero un sussidio dallo Stato: un privilegio negato ai locali. Naturalmente, oltre ai pregiudizi, trovarono anche abbondante solidarietà, vicinanza umana, simpatia di poverissimi tra poveri. Non mancò quella che oggi chiameremo “l’integrazione”: fidanzamenti, matrimoni “misti” e via dicendo.
Varrebbe proprio la pena leggere queste pagine di storia veneta ed italiana di cento anni fa e di confrontarne il racconto con le vicende dei profughi che da alcuni arrivano fuggendo alle nuove guerre, alle nuove Caporetto. Ci sono perfino le medesime controversie, reciproche accuse, polemiche, rimpalli, fughe dalle responsabilità tra Stato centrale e amministrazioni locali.
Nel 1918 la guerra però finì e gran parte dei profughi, lentamente, tornò a casa o a quello che vi rimaneva. Oggi non possiamo immaginare quando finiranno le guerre che fanno fuggire siriani, somali, iracheni, sudanesi, afgani e altri ancora. Sappiamo però che queste guerre “moderne” colpiscono più i civili che gli armati, con o senza uniforme. Non possiamo quindi attenderci che questo esodo finisca dall’oggi al domani. Quello che invece ci vorremmo aspettare è che qualcuno voglia far passare a loro i maltrattamenti che subirono i nostri nonni e bisnonni, alimentando pregiudizi e scaricando su queste persone le difficoltà ed i ritardi con cui si stanno affrontando queste “emergenze” che si susseguono, con brevissime pause, dalla fine degli anni ’90. E’ triste poi dover assistere per l’ennesima volta al triste spettacolo di chi, agitando oggi le stesse misere argomentazioni di cento anni fa, cerca di trarne lucro politico. Non si può sputare sulla nostra stessa storia ne tantomeno addossare a questa povera gente la responsabilità dei problemi che non abbiamo finora saputo affrontare e risolvere: il lavoro, la povertà, l’efficienza della PA, la convivenza e la sicurezza.