Non siamo secessionisti ma non possiamo essere rinunciatari

Mercoledì, 16 aprile 2014

Il 6 aprile scorso la città di Verona che gode del patrocinio (come altre 11 cittadine venete) del vescovo africano San Zeno, è stata meta di due eventi che hanno ricevuto grande attenzione dei media nazionali: da una parte la manifestazione per la “liberazione” degli indipendentisti veneti fatti arrestare dalla magistratura bresciana, dall’altra la giornata di apertura di Vinitaly. In piazza dei Signori, osservati da Dante Alighieri, si sono ritrovati in 3mila, alla Fiera in oltre 30mila (155mila nei 4 giorni, di cui un terzo stranieri). Possiamo immaginare che i veneti fossero in maggioranza sia da una parte che dall’altra. Basterebbe confrontare questi semplici fatti di cronaca per sottolineare quanto forte sia anche per i veneti il “made in Italy” che, come nel caso del vino, va ben oltre all’aspetto commerciale, rappresentando invece un valore culturale del vivere quotidiano, radicato nelle singole persone. Che i veneti non siano i russi di Crimea (qualcuno ha tentato il paragone) lo si capisce solo guardandosi intorno: osservando i carrelli della spesa, l’abbigliamento, il linguaggio corrente. Ma anche la insofferenza nei confronti dello Stato centrale: atteggiamento comune a tutti gli italiani, compresi quelli che vivono nelle regioni a statuto speciale. Non di tutto lo Stato però: certamente della sua burocrazia, della sua invadenza; non così invece verso le forze dell’ordine o del Presidente della Repubblica o della scuola: i massimi garanti dell’Unità nazionale. L’invenzione del “popolo veneto” come realtà etnica distinta e distante da tutti non trova riscontro storico nemmeno nelle vicende della Serenissima Repubblica di Venezia. Non dimentichiamoci che fino a qualche anno fa il Leone di San Marco era riverito non oltre la Laguna. E l’orgoglio di essere veneti non è molto diverso da quello di chi si sente friulano, piemontese o siciliano.

Anche i tentativi di contrapporre la veneticità (termine che, forse non a caso, non esiste) alla italianità e al resto del mondo non trovano significativi argomenti. La nostra cultura, dal sapere al fare, è ricca di contaminazioni, di miscelazioni, di incroci: basti guardare le nostre campagne e le nostre tavole ma anche ascoltare il nostro dialetto (nelle sue diversissime articolazioni). Abbiamo appreso da tanti: che fossero gli austriaci dell’Impero Austro-Ungarico o i tedeschi delle vacanze sui nostri litorali, i romani che costruirono l’Arena o i Turchi che commerciavano con Venezia, i nostri emigranti di ritorno dal mondo o gli immigrati che nel corso dei secoli hanno trovato in Veneto una nuova patria. E lo abbiamo messo in pratica, con tenacia e passione. Non siamo però gli unici ad avere queste virtù. Non siamo ne i migliori ne i peggiori: chiediamolo ai nostri ragazzi che studiano e lavorano in giro per l’Europa e anche oltre.

Mancano dunque i presupposti per essere secessionisti. Non vorremmo però che si continuasse a disperdere e bruciare tempo ed energie alla ricerca di qualche pretestuosa distinzione tra l’essere veneti e l’essere italiani. Cambiare il Paese, cambiare l’Europa, cambiare il Veneto è la nostra vera sfida. Sarebbe imperdonabile rinunciarvi.