Grandi Regioni, grandi ragioni

Giovedì, 29 ottobre 2015

La proposta di alcuni parlamentari del PD di ridisegnare le regioni d’Italia sulla base della ipotesi formulata nei primi anni ’90 dalla Fondazione Agnelli ha lanciato in avanti la palla della discussione sulla riforma della geografia istituzionale del nostro paese.
Presentata come ordine del giorno nel corso della discussione parlamentare sulla legge costituzionale di riforma delle istituzioni, è stata recepita dal Governo ed è quindi uscita dalla ibernazione a cui era stata condannata da un ventennio di confusa, quanto improduttiva, discussione sul federalismo.
Le 12 regioni che andrebbero a comporre il territorio nazionale furono spiegate dall’allora direttore della Fondazione Marcello Pacini, come il corrispondente a due requisiti: l' autosufficienza finanziaria e l' idoneità a fare da contenitore a progetti di sviluppo.
La ridelimitazione coinvolgeva anche il Veneto con la sua aggregazione al Trentino Alto Adige e al Friuli Venezia Giulia. In pratica un ritorno, con l’aggiunta dell’Alto Adige, al Triveneto storico.
L’iniziativa dei parlamentari in questione, come la decisione del governo, non è stata accolta da fragorosi applausi. Al contrario: freddezza e scetticismo hanno caratterizzato le dichiarazioni dei rappresentanti istituzionali interessati, nel nostro caso, ad esempio, i presidenti Zaia e Serracchiani.
Eppure i problemi a cui, allora, si voleva dare una risposta razionale sono rimasti irrisolti, anzi si sono amplificati. La sperequazione fiscale non si è ridotta, la modestia progettuale di molte regioni si è amplificata dalla complessità che hanno assunto gli interventi per lo sviluppo (pensiamo solo alla infrastrutturazione, all’uso delle risorse comunitarie, alla dimensione di alcune problematiche sociali).
A ciò si è aggiunta l’inderogabile necessità di ridurre i costi della Pubblica Amministrazione e semplificare il sistema decisionale e dall’altra di avere governi locali autorevoli e capaci di valorizzare virtuosamente le differenze e le identità territoriali nel contesto nazionale ma anche europeo (l’Europa della Regioni).
Venendo ai fatti nostri: la Regione del Triveneto che dovrebbe amministrare il cd Nordest partirebbe in condizioni di grande vantaggio: la omogeneità e la integrazione del sistema economico ed occupazionale è già elevatissima, così come lo sono le risposte alle grandi problematiche dello sviluppo. Simili sono le conformazioni urbane e, infine, tutte le aree di confine tra le attuali tre regioni sono già strettamente interconnesse.
E le “specialità”? Dovrebbero rimanere per riconoscere le culture, le lingue e quanto altro testimonia la ricca storia dei popoli che vi abitano. Ma senza più dar luogo ad anacronistiche e sempre più immotivate differenze in materia fiscale.
A meno che non ci si accontenti di quel poco che passa oggi il convento, magari per poter continuare a lamentarci. E non vale solo per il Veneto.